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I Sangiorgio:
zoccoli unici da tre generazioni

Un’attività che dura da 90 anni

PROFESSIONE «ZECURÈ».

I Sangiorgio sono zoccolai da tre generazioni. A raccogliere il testimone oggi è Roberto, 47 anni, tre figlie e una pesante eredità: impedire che un mestiere della tradizione popolare e un’intera arte finiscano nell’oblio.

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La vostra bottega quest’anno compie novant’anni…

«Ha iniziato mio nonno Vincenzo nel 1922, da autodidatta. Gli zoccoli a quei tempi erano un’esigenza, così il nonno imparò il mestiere e creò a Baggero, frazione di Merone, lo zoccolificio».

La location scelta, a due passi dal Lambro, non è casuale.

«La nostra famiglia è cresciuta qui. Il fiume serviva a muovere i macchinari, seghe e piallatrici. Qui sono nate le attività produttive della città: oltre al mulino per la produzione della farina, dall’altro lato c’era anche la filanda. Sfruttavano la forza motrice dell’acqua».

Poi il lavoro passò nelle mani del papà, Davide. Com’è cambiato negli anni questo mestiere?

«In origine tutti calzavano gli zoccoli: erano le scarpe dei contadini e anche gli operai li utilizzavano,per esempio nelle tintorie, grazie al materiale isolante. Accanto allo zoccolificio c’era anche il negozio. Ma eravamo fornitori soprattutto di ambulanti, che adesso sono sempre meno. C’è troppa concorrenza purtroppo, spesso a scapito della qualità. Oggi lo zoccolo è rimasto perlopiù un prodotto da donna ed è prettamente stagionale. La maggior parte della nostra attività si concentra nel periodo estivo».

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Quando ha preso in mano l’attività della famiglia?

«Da 27 anni faccio questo lavoro, anche se già prima aiutavo papà. È un mestiere che ci è stato trasmesso di generazione in generazione. Posso dire di essere l’ultimo, anche se dispiace».

È un mestiere destinato a scomparire?

«Spero di no, ma è sempre più difficile. Prima di tutto si fatica a trovare le materie prime. Stanno chiudendo tutti gli artigiani del legno purtroppo. Basti pensare che i nostri fornitori, soprattutto toscani, un tempo erano 74, oggi ne sono rimasti solo tre o quattro».

Colpa anche della plastica, che continua a fare concorrenza spietata al legno?

«A suo tempo bisognava creare un distretto del legno. Così invece non ha retto al boom della plastica negli anni Settanta e Ottanta. In quegli anni papà ha resistito inventandosi e creando anche cornici. Poi abbiamo cercato di continuare a coltivare comunque questo mestiere, puntando sulla qualità dei materiali e sulla personalizzazione».

Perché preferire il legno?

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«È asciutto, mantiene il piede sempre sano, lo fa respirare: è fresco d’estate e caldo d’inverno. Noi utilizziamo soprattutto il legno di ontano e faggio. Poi lavoriamo la pelle e il cuoio, tagliamo le forme, le stampiamo e cuciamo».

 

Come possono convivere tradizione e moda?

«La tradizione si vede nella cura dei materiali, in un prodotto che non è di serie. Al contempo dobbiamo tenerci al passo con i tempi. Negli anni Settanta il tacco veniva anche serigrafato. Quest’anno invece sono tornati di moda tacco alto e zeppa. Dobbiamo essere creativi e accontentare il cliente».

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